«Un giorno cucinando, mi colpì dal lavandino, la ricchezza contenuta nella rison/danza metallica di una bacinella, allo stimolo dell’acqua che in lei cadeva: irregolare, non scrosciava, non gocciava, era lì in mezzo – “ lei, dal fittissimo alfabeto ” Zanzotto suggeriva.
Ho cominciato a sentirci delle voci, dei non luoghi vocali: sono diventati sfregamento, percussione, risonanza, tremolo, purezza, e ciò che dell’uno l’altro contiene un pianoforte ad arco/percussione/tondo sax soprano/clarinetto
una percussione/violoncello/pianoforte/risonante sax soprano/fluido clarinetto
un violoncello/…/…/… e cosi via
e l’acqua che attraversa mai ferma,
una corrente sotteranea, una dedica
( ad H. lettera muta )
con il pianoforte al centro quale vuoto contente, spazio risonante, alveo, bacino, all’interno del quale le differenti voci strumentali potessero sciogliersi e fluire di trasformazione in trasformazione, come le differenti provenienze di un unico torrente.
Un pensiero di Leonardo, dal Man. A foglio 2, ha accompagnato tutto il corso del lavoro
“l’aria è piena d’infinite linee rette e radiose insieme intersegate e intessute senza ochupazione l’una dell’altra ( le quali ) rapresentano a qualunque obieto la vera forma della sua chagione”
Dopo i 70 minuti del ciclo per sax soprano solo, mi sono chiesto cosa sarebbe successo in un tempo compresso, il tempo di una goccia d’acqua, di quella seria e risoluta maniera di lavorare. Mi sono chiesto se per fare un buon lavoro fosse assolutamente necessario essere così estremamente serio o se fosse anche possibile raggiungere un’alta qualità di lavoro dentro ad un piccolo sorriso, magari perfino sorridendo…
Ho immaginato di diventare la goccia che cadendo nel torrente, unita e divisa allo stesso tempo, seguisse il flusso dall’interno nella sua ricerca della giusta via per continuare. Lì ho scoperto una superficie sensibile, dove la qualità interna di ogni cosa si comprime a formare una sottile ma sensibile pelle, che noi possiamo percepire attraverso qualcosa come un extra tatto, forse un tatto totale. Per quel tatto c’è un profondo contenuto in ogni superfice ma bisogna rimanere leggeri per sentirlo.
due lune vorrebbe essere una fiaba, la leggera complessità di una fiaba, raccontata dall’acqua.
Dopo sei anni dalla fine del ciclo di 70 minuti per lo stesso strumento, c’era ancora qualcosa di cui non avevo detto, una velocità, una leggerezza che non avevo ancora sperimentato. Nell’estendersi del nuovo cielo che il ciclo aveva cercato di indicare, mancava un essere, una figura che in sé raccogliesse tutta l’imprevedibile vitalità di quel mondo. Ha cominciato così a battere faticosamente le ali uno strumento che pur essendo lo stesso è differente: è diventato la simulazione di una vita, un passaggio, un uccello meccanico scagliato in quel cielo per attraversarlo. Uno strumento, che desse improvvisamente corpo a tutto il cielo: chi meglio di un alato? Il principio del volo ha generato così una tecnica articolatoria che vorrebbe avvicinare la meraviglia del volare; penso alle macchine volanti di Leonardo, gli entusiasmi, le rovinose cadute, le varianti di un progetto antico come l’uomo che, nonostante le macchine ora esistenti, rimane ancora fisicamente incompiuto per ciò che di più intimo cercava: un alleggerirsi, uno svuotarsi, un farsi spazio, dentro e fuori. Qualcosa di intuibile forse solo a lato, con la coda dell’occhio, dell’orecchio.
Work in progress 2011»
Due Lune Più In Là (Stralcio)
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