autore

Tutino Marco


Note biografiche

Si è diplomato in Flauto e in Composizione (è stato allievo di A.Corghi e G.Manzoni) al Conservatorio di Musica di Milano.
Il suo esordio come compositore è avvenuto nel 1976 al Festival Gaudeamus, in Olanda. In seguito ha partecipato alle rassegne più importanti di musica contemporanea tra cui la Biennale di Venezia, il Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano, Musique Vivante di Parigi, Festival Pontino. La sua musica sinfonica e cameristica è stata programmata in tutto il mondo da prestigiose istituzioni: Santa Cecilia, Unione Musicale, Pomeriggi Musicali, Orchestra Sinfonica del Teatro alla Scala, BBC Orchestra, Orchestra Sinfonica della Radio di Berlino, I Solisti di Mosca, Orchestra Sinfonica della Radio di Copenhagen, San Francisco Chamber Orchestra, ed è stata eseguita, tra gli altri, da direttori e solisti come Riccardo Chailly, Giuseppe Sinopoli, Daniele Gatti, Anton Nanut, Roberto Abbado, Lu Jia, Carlo Rizzi, Bruno Campanella, Dimitri Ashkenazy, Marzio Conti.
In campo teatrale la sua attività è nata con la creazione delle opere Pinocchio (1985, Vienna e Genova, poi Firenze), Cirano (1987 su commissione del Laboratorio Lirico di Alessandria, regia di Gabriele Salvatores: l’opera ottiene un eccezionale successo di pubblico, unico – a detta della critica- nel dopoguerra), Vite Immaginarie (1990, Teatro Comunale di Bologna, poi tournée). Nel 1993 ha debuttato con un’altra opera,Federico II, che gli è stata commissionata dal Teatro dell’Opera di Bonn e che ha inaugurato la stagione del teatro tedesco. Nel 1990 l’opera in un atto La Lupa è andata in scena al Teatro La Gran Guardia di Livorno in abbinamento con Cavalleria rusticana, in occasione del centenario dell’opera mascagnana, con la direzione di Bruno Bartoletti. In seguito La Lupa è stata rappresentata al Teatro Verdi di Pisa, al Teatro Nazionale di Szeged (Ungheria), al Teatro Massimo di Palermo e al KuppelTheater di Erfurt (Germania). La registrazione discografica di quest'opera (Foné) ha vinto il premio “Presidenza della Repubblica”. Per la danza ha scritto le musiche dei balletti Riccardo III, (1996) e Dylan Dog (1999). Nel 1997 ha scritto il musical per bambini Il gatto con gli stivali, andato in scena al Teatro Filarmonico di Verona, all’Opéra di Metz e allo Stadttheater di Giessen. Ha inoltre partecipato alla creazione di due grandi opere collettive: il Requiem per le vittime della mafia, da lui ideato (1993, Cattedrale di Palermo) e la Messa Giubilare di Resurrezione, commissionata dalla Sagra Musicale Umbra nel 2000 ed eseguita in Campidoglio e nelle cattedrali di Perugia e Orvieto in occasione del “Giubileo dei giovani”. Nel 2002/2003 il “dialogo concertante” Peter Uncino è stato rappresentato al Teatro Filarmonico di Verona, al Teatro Modena di Genova, al Teatro Sistina di Roma e al Teatro Smeraldo di Milano, poi in tournée in tutta Italia. Nell’aprile 2003 Placido Domingo ha interpretato al Teatro delle Muse di Ancona il Canto di Pace, composto su una preghiera di Giovanni Paolo II. Nel maggio dello stesso anno al Piccolo Teatro di Milano, nell’ambito della stagione della Scala, è andata in scena l’opera Vita. Nel 2004 il Teatro Pergolesi di Jesi ha aperto la stagione con Federico II, opera sulla vita del grande Imperatore, mentre l’anno successivo il Macerata Opera Festival ha inaugurato con il monologo lirico “Le bel indifférent”. Ulteriore lavoro d’interesse l’opera basata sul romanzo di Robin Maugham “The Servant”, dal quale nel 1964 Joseph Losey e Harold Pinter trassero l’omonimo celebre film.
Dal 1990 Tutino pubblica la maggior parte delle sue musiche presso la Casa Musicale Sonzogno di Milano.
Molto attivo anche nell’ambito dell’organizzazione teatrale e musicale, è stato dal 1991 al 1994 consulente artistico del Teatro Valli di Reggio Emilia e direttore artistico dei Pomeriggi Musicali di Milano. Dal 1998 al 2002 ha ricoperto il ruolo di Compositore Residente e Consulente per la musica contemporanea presso la Fondazione Arena di Verona. È stato Direttore artistico del Teatro Regio di Torino dal 2002 al 2006, quando è stato nominato Sovrintendente e Direttore artistico del Teatro Comunale di Bologna.
Oggi insegna Composizione presso il Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano.


Altre note

•  Fa parte di quella schiera di autori neo romantici che disprezza l'artificiosità della musica dotta contemporanea.
•  http://www.illibraio.it 27.01.2017 – 1
Il mestiere dell’aria che vibra (Ponte alle Grazie) è il mestiere che Marco Tutino – milanese, classe 1954, oggi uno dei maggiori compositori del panorama italiano contemporaneo – ha scelto per la propria vita. Nel suo primo libro racconta la passione per il proprio lavoro, la genesi delle sue opere e i segreti del palcoscenico. Da piccolo ascoltava Beethoven e Vivaldi in braccio al papà, da ragazzo ha amato i Beatles e i Rolling Stones (per non parlare di Lucio Battisti), e da giovane era indeciso tra fare il cantautore folk, l’attore brechtiano, il militante politico o il flautista. Ma la folgorazione è arrivata una sera dei primi anni Settanta quando, seduto in un posto della piccionaia della Scala, sente i congiurati di Un ballo in maschera sussurrargli i loro intenti malvagi, donandogli la più forte delle emozioni. È in quel momento che sceglie “mestiere” della sua vita, quello di far vibrare l’aria. Nelle pagine della sua biografia Tutino racconta la passione per il proprio lavoro, la genesi delle sue opere e i segreti del palcoscenico. La sua storia di musicista e di sovrintendente poco avvezzo ai compromessi si intreccia con la storia nazionale, e nel contempo sfilano sullo sfondo le grandi opere del repertorio lirico internazionale, complete di istruzioni per l’uso. Le sue opere – tra cui Pinocchio, Cyrano, La lupa, Il gatto con gli stivali, Vita, Senso, Le braci e Two women – sono state, infatti, eseguite nei più importanti teatri del mondo. E, tra le righe, affiora la danza gioiosa e leggera della creazione artistica, fatta di ispirazione e di artigianato, di rigore e di abbandono, di piccole, improvvise illuminazioni. Oggi Tutino insegna composizione presso il Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, e questo è il suo primo libro. Per gentile concessione dell’editore, proponiamo un estratto:PrimaRicordo con certezza cosa sia stato a spingermi definitivamente a scegliere la professione del musicista. Le opzioni che mi frullavano in testa, all’inizio degli anni Settanta, erano vagamente avventurose e poco concrete: lo scrittore, la rockstar, l’attore, il regista cinematografico… cose così, niente a che fare con il medico o l’avvocato. A quell’epoca il pragmatismo non andava molto di moda, e i giovani – giustamente – rincorrevano utopie, il futuro sembrandoci uno spazio ricolmo di possibilità indefinite ma affascinanti. È chiaro che parlo dei giovani della buona borghesia; gli altri non avevano certo né il tempo né il permesso di perdersi in queste fantasticherie.Sta di fatto che da quando io possa ricordare, e cioè da circa il 1958, intorno ai quattro anni, la musica si era infilata nelle mie giornate dagli spiragli più disparati: in casa c’era un padre che adorava la musica classica e appena poteva mi proponeva, su vinile, Beethoven o Vivaldi, e un suo primo cugino, Niccolò Castiglioni, era uno dei compositori più noti e apprezzati della sua generazione. Io diventai presto un ragazzo che amava i Beatles e i Rolling Stones (ancor di più Lucio Battisti) e tentai una spericolata carriera come cantautore folk, riuscendo persino a farmi produrre un 45 giri e un long playing dei quali mi vergogno tuttora. Carriera fortunatamente naufragata in una di quelle mezze balere della bassa lombarda quando, dopo un disastroso concerto, il mio “impresario” scappò con la cassa senza nemmeno lasciarmi i soldi per un taxi.La mia adolescenza fu turbolenta e indisciplinata. Mi ero lasciato coinvolgere nella febbre del ’68, diventando la mascotte del movimento studentesco milanese e partecipando a ogni manifestazione più o meno tumultuosa con l’incoscienza tipica di quella stagione della vita. Feci in tempo a presenziare alle prime riunioni nelle quali si cominciava a percepire il cattivo odore della lotta armata; e quando vidi il cervello di Giannino Zibecchi, un giovane insegnante di educazione fisica, adagiato sul pavé di corso XXII marzo a Milano, decisi che non volevo più saperne di rivoluzioni e di lotte di classe. Ma non fu solo la violenza così estrema a farmi allontanare; piuttosto un senso crescente di estraneità e di noia profonda nel sentire ripetere all’infinito slogan sempre più privi di senso della realtà e di proposte costruttive. Avevo anche percorso l’Italia insieme a una compagnia teatrale, il Collettivo Bertolt Brecht, piuttosto scalcagnata, nella quale recitavo e suonavo la chitarra in spettacoli genericamente di protesta o in testi teatrali brechtiani quali La linea di condotta o Il cerchio di gesso del Caucaso; ma francamente non mi era sembrata una prospettiva di futuro entusiasmante.Fu soltanto una sera di febbraio del 1971 a cena con mia madre in un ristorante di piazza San Babila, che la mia vita si divise in un prima e in un dopo, con una forza inattesa. Non che i nostri rapporti fossero idilliaci: in verità non parlavamo granché di cose personali. Ma immagino che ogni tanto le piacesse recitare il ruolo normativo, e quella volta lo interpretò molto bene.Fu molto convincente e spietata nell’analisi di ciò che chiamava “dilettantismo”, praticamente tutto quello che avevo tentato fino ad allora, in opposizione a ciò che chiamava “mestiere”, esattamente ciò che avevo evitato di affrontare. La separazione tra le attività svolte per il proprio piacere e svago da quelle che in qualche modo avrebbero consentito il mio sostentamento stava tutta in quella parolina, “mestiere”. Non era solo un problema di soldi, e nemmeno una generica questione di dovere sociale: la faccenda si poneva in termini etici, deontologici. Un uomo che non possiede un mestiere è un uomo superficiale, destinato a vivere la vita senza conoscere e capire granché. Non importa che il mestiere sia molto remunerativo in termini economici, e nemmeno pienamente riconosciuto socialmente. Quello che conta è saper svolgere un’attività ai massimi livelli possibili, quelli che il tuo talento e la tua perseveranza ti consentiranno di raggiungere. Mi convinse. Far bene una cosa, anche se apparentemente non fondamentale per i miei simili, nella mia visione del mondo di allora era un’idea sufficientemente snob da poter essere presa in considerazione.A questa parola, mestiere, sono rimasto fedele. La sua etimologia richiama con chiarezza i concetti di ruolo, necessità, esercizio di un’arte. Dunque l’artigianato, l’attenzione ai particolari, la cura. E il talento e l’abilità per esercitarli in qualsiasi campo: far bene il proprio mestiere, da quello più umile a quello più eclatante. Ho imparato via via ad apprezzare in egual misura un piatto abilmente cucinato come una piega perfetta di una moto in gara; un abito ben confezionato come una poesia di valore, un mobile ben costruito quanto un vino prodotto con sapienza. Cose fatte bene, nella quali si riconosce la qualità, l’attenzione ai dettagli e alle sfumature, e anche la tradizione e la cultura a loro sottesa, la storia che raccontano e che trasportano. All’opposto, provo un fastidio insopprimibile davanti alla genericità, alla sciatteria, al pressapochismo spesso rintracciabili in molte azioni umane. Come verso gli oggetti fatti in serie, piatti e senza vita. Attraverso l’esercizio accurato di un mestiere, ho faticosamente compreso come si potesse accedere ad alcuni dei segreti dell’esistenza, e che di lì sarebbe transitato un po’ di senso.
LEGGI ANCHE – La musica classica nei libri: tanti consigli di letturaPer questo, dopo quella cena, mi iscrissi al Conservatorio di Milano, nella classe di flauto di Marlaena Kessick, e poco dopo nella classe di composizione di Azio Corghi prima e Giacomo Manzoni poi. Sempre per questo smisi di suonare il flauto un anno dopo il diploma – capii che non sarei mai diventato un grande flautista – per dedicarmi soltanto alla composizione. Ma, soprattutto, fu grazie a quell’idea suggerita da mia madre e impressa nel posto giusto del mio cervello che quando in una sera di lavoro del 1972 (vendevo libri per conto di Einaudi nell’ultimo foyer del Teatro alla Scala) decido casualmente di mettere per la prima volta la testa dentro la «piccionaia» e arrivo giusto in tempo per la scena dei congiurati del Ballo in Maschera di Verdi – direttore Gianandrea Gavazzeni, regia di Franco Zeffirelli, scenografia di Renzo Mongiardino. Cantano Lou Ann Wycoff, Margherita Guglielmi, Viorica Cortez, Plácido Domingo, Piero Cappuccilli, Luigi Roni –, la prima cosa che penso è: ma quanta gente ci vuole per fare un’opera? Conto settanta persone in orchestra, altrettante se non di più nel coro. Più i solisti in palcoscenico, circa sette quella volta. E poi immagino quante persone nascoste dietro le quinte a movimentare le scene, regolare le luci, suggerire, far entrare i cantanti, dare il via o fermare qualcosa. E quante sarte a vestirli, truccatrici a truccarli, calzolai a calzarli. E ancora non conoscevo il numero dei professionisti, in realtà molti di più di quelli che potevo immaginare allora, necessari per mandare avanti e organizzare lo spettacolo che in quel momento mi stava regalando la più forte emozione della mia vita; perché i congiurati che sussurravano i loro intenti malvagi percorrendo un campo di notte erano così veri, così perfetti e credibili, così sinistri e inquietanti nonostante stessero cantando, anzi, più veri del vero proprio perché cantavano, che quel piccolo miracolo di realissima finzione doveva essere – pensai – il mestiere più sofisticato e complesso che una mente umana potesse elaborare. E per edificare quel castello in aria, che in un attimo svanirà nel nulla, era necessario un alveare perfettamente coordinato di esseri umani. Allora non ho il minimo dubbio: quello sarebbe diventato il mio Mestiere. E prima o poi, avrebbero eseguito un’Opera scritta da me in quel Teatro, promesso. Avevo diciott’anni. (…)
•  http://www.illibraio.it 27.01.2017 - 2
"Il mestiere dell'aria che vibra - Una visita guidata nei segreti della musica e dell'opera lirica" (Ponte alle Grazie), libro firmato da Marco Tutino, uno dei più importanti compositori italiani, è in libreria.
Nel volume autobiografico Tutino ci racconta la passione per il suo lavoro, la genesi delle sue opere e i segreti del palcoscenico, le scelte tecniche e le fatiche organizzative che stanno dietro un singolo allestimento o una stagione teatrale, gli incontri felici e i feroci scontri con il potere, in tutte le sue incarnazioni. Mentre la sua storia di musicista e di sovrintendente poco avvezzo ai compromessi si intreccia con la storia nazionale, sfilano le grandi opere antiche e moderne che compongono il grande repertorio lirico, complete di istruzioni per l’uso. E, tra le righe, affiora la danza gioiosa e leggera della creazione artistica, fatta di ispirazione e di artigianato, di rigore e di abbandono, di piccole, improvvise illuminazioni. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo il decalogo contenuto nel libro, in cui Tutino svela cosa ha imparato dalla musica: 1) IlTempo. Ho imparato dalla musica che c’è un tempo interiore, differente da quello dell’orologio, e che non sempre la percezione soggettiva è necessariamente illusoria: a volte, è l’orologio che sbaglia; 2) L’Armonia. Per apprezzare la consonanza, è necessario accostarla alla dissonanza: una successione di fatti concordanti alla lunga è stucchevole. Diffidare dunque di coloro che sono sempre in sintonia con te, che ti lodano a prescindere, che non dissentono mai: c’è sotto qualcosa. Ogni tanto, qualcuno che ti ricordi che sei umano e fallibile ti farà apprezzare con maggior soddisfazione una meritata lode; 3) La Melodia. Spesso sei solo. Non per questo non sei in sintonia con gli altri, non per questo sei perso: la vera melodia è autonoma, ma si esalta con l’accompagnamento, anche se occasionale. Puoi imparare dalla melodia che si può rimanere se stessi anche soli, e che si deve rimanere se stessi anche in compagnia; 4) Il Ritmo. Senza il ritmo, il tuo talento, qualsiasi talento, è inutile. Non servirà aver chiare le cose, non servirà la coscienza: se sbagli il momento, la tua energia andrà sprecata. La scelta del tempo è essenziale per realizzare i tuoi desideri; altrimenti, resterai nel limbo indistinto delle aspirazioni; 5) La Forma. È più importante la scatola o il suo contenuto? Falso problema: la scatola è sovente anch’essa il contenuto. Nessuno vi perdonerà una buona intenzione, se male espressa: tutti si ricorderanno della sgradevolezza e non del suo vero significato. La forma è sostanza, è banale, ma la musica ti rammenta che alle volte la forma può diventare la ragione delle scelte: può prevalere sulla presunta sostanza. O ancora: che la sostanza, alle volte, non c’è.6) La Concentrazione. Senza la concentrazione, la musica non esiste. Per questo, dalla musica ho imparato quanto sia illusorio pensare che davvero si veda quello che si guarda, si comprenda quello che si legge, si ascolti quello che si sente, si senta quello che si tocca… La concentrazione, sempre, in qualsiasi attività è necessaria per raggiungere il cuore: e dunque, anche in amore, bisogna imparare a concentrarsi. Non è semplice; è necessario l’esercizio; 7) L’Esercizio. Esercitarsi non è solo riservato agli atleti e agli strumentisti: dovrebbe essere un metodo estendibile a tutte le attività dalle quali ci aspettiamo grandi soddisfazioni. Ci si può esercitare a tutto, ma sono necessari i maestri; 8) Le Classifiche. La musica insegna meglio di altre discipline che le categorie, le scale di valori, la serie A e la serie B sovente ingannano. La musica bella può risiedere nella più semplice canzonetta, la musica brutta nella più complessa delle partiture, e dunque rammentiamoci che il senso di superiorità non conduce a nessuna verità, ma riconduce solo e sempre al nostro io più meschino; 9) La Collaborazione. La musica insegna a stare insieme: anche questo è banale. Ma è curioso come l’esecuzione di qualsiasi musica richieda lo stesso tipo di collaborazione che le particelle impiegano per diventare nuclei, e gli atomi per diventare corpi. Tuttavia, ciascuna frazione conserva una sua propria intelligenza, dunque il mondo sembra essere una matrioska e non si capisce bene se sia solo una metafora, oppure davvero tutto proceda a imitazione di un modello primordiale: un uomo è un uomo, o uno stormo di piccoli e intelligenti pezzettini di uomo?; 10) La Razionalità. Ho imparato dalla musica che la razionalità non esaurisce la nostra percezione del mondo, e nemmeno la comprensione del medesimo. In questo senso, la musica è una metafora perfetta di quanto sia sbagliato pensare che basti solo pensare, e che tutto sia controllabile e soprattutto riconducibile a qualche modello logico-matematico. È possibile anche il Mistero. Esiste ciò che non dovrebbe esistere, ciò che non comprendiamo come possa esistere, ma c’è, si manifesta. Non temiamolo, accettiamolo. Lasciamo che faccia il suo mestiere, lasciamoci spiazzare dalla magia del mondo. Poi, rimettiamoci al lavoro.
A rileggerlo oggi, riconosco le ragioni di quei pensieri, e anche il tono da direttore artistico. Non scriverei certe frasi zuccherose, ad esempio, e forse sarei più completo nell’analisi. Ecco, potrei aggiungere un undicesimo punto, che rovina la rotondità di un decalogo ma che è pertinente a questo racconto: 11) La musica mi ha insegnato che fare bene un mestiere ti mostra chi sei. E anche dove sei, in senso lato. Sostanzialmente, ti indica qual è il tuo posto. (…)

 


Opere

Ferite leggere O.f+ 5Sx - 1984

Il gatto con gli stivali Voci Coro & O.+ A T - 1997

La bella e la bestia Voci & O.c+ A - 2005

La lupa Voci & O.+ T - 1990

Missa Solemnis Resurrectionis Ten Coro & O.c+ A T



 
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