Ha compiuto gli studi musicali presso il Conservatorio "G. Rossini" di Pesaro, studiando composizione con Domenico Guaccero e Mario Bertoncini, chitarra con Carmen Lenzi Mozzani e musica elettronica con Walter Branchi. Autodidatta come progettista e ricercatore, ha compiuto il suo apprendistato in campo scientifico collaborando con vari ricercatori, fra cui Giuseppe di Giugno, Guido Guiducci e Silvio Santoboni.
Dal 1968 ha svolto attività di musicista (liutista e chitarrista) sino al 1980 e di compositore e ricercatore sino ad oggi. Dal 1975 svolge attività di ricerca in ambito tecnico-scientifico, nel campo dell'acustica e dell'informatica musicale. La maggior parte delle sue opere utilizza strumenti da lui appositamente progettati, sia per la sintesi che per l'elaborazione del suono, in collaborazione con università, centri di ricerca ed industrie.
I più complessi fra questi: Orion, microchip per la sintesi del suono progettato alla SIM (Società per l’Informatica Musicale di Roma) nel 1988-90; Mixtral mixer digitale con possibilità estese di spazializzazione del suono realizzato in collaborazione con Charlie Lab (Mantova) nel 1996-97; Saiph sistema per la sintesi ed elaborazione di segnali musicali realizzato presso la Seconda Università di Roma “Tor Vergata” nel 1997-98. Tali sistemi sono stati presentati in vari convegni internazionali e sono stati utilizzati nell’ambito degli strumenti musicali elettronici e dell’audio professionale.
Dal 2008 è coordinatore del "Festival Internazionale di Musica Elettroacustica del Conservatorio S.Cecilia".
Nel 1996 è stato docente del Corso di perfezionamento di musica elettronica presso l’Accademia Chigiana di Siena, mentre dal 2004 al 2010 è stato docente di “Storia e tecniche della musica elettronica” presso la Facoltà di Lettere (DAMS) ed il Master in “Ingegneria del suono” della Facoltà di Ingegneria dell'Università di Roma Tor Vergata. Dal 2011 è docente dei corsi di "Composizione di musica elettroacustica" e "Tecniche di analisi della musica elettroacustica", relativi al Master in SONIC ARTS[1] dell’Università di Roma Tor Vergata. È docente di musica elettronica presso il Conservatorio Santa Cecilia di Roma.
--Il centro della sua ricerca di musicista riguarda il timbro, concepito quale parametro principale e "unità costruttiva" delle sue opere. L’attenzione è rivolta, infatti, alla composizione della microstruttura del suono. Nei suoi lavori per strumenti ed elettronica punta ad estendere la sonorità degli strumenti acustici mediante complesse elaborazioni del suono come in alcuni dei suoi lavori più recenti: Iki, per soprano e suoni elettronici (1993), Arco per suoni elettronici (1994), Ruota del tempo per suoni elettronici (1996), Archeion (per pianoforte ed elaboratore elettronico in tempo reale, 1995-2000), Solve et coagula per suoni elettronici (2000), Seguendo un filo di luce per suoni elettronici (2002), Percorso incrociato (per voce femminile, suoni elettronici ed elaborazioni elettroacustiche dal vivo, 2004), Percorso inverso (per voce femminile e suoni elettronici, 2004), In Viola (per viola e live electronics, 2006), Risonante notturno (per pianoforte e live electronics, 2006), Orizzonte (per voce femminile e live electronics, 2006), RING (per violino, quartetto di fiati, ensemble di percussioni e live electronics, 2008), Messa in scena sonora I della Gerusalemme liberata (per voce recitante, liuto e live electronics, 2008), Messa in scena sonora II ad Alda Merini ed Eugenio Montale (per due voci recitanti e live electronics, 2009), Improvviso Dinamico (per saxofono contralto e live electronics, 2010), Tessiture in rilievo (acusmatico, per suoni di sintesi, 2010), Specchi risonanti (per viola e live electronics, 2011), Ordito polifonica (acusmatico, per suoni di sintesi, 2011).
--Interessante il suo scritto pubblicato in “Fisica nella musica” (Andrea Frova, Zanichelli 1999) e presentazione della manifestazione “Il pensiero elettronico” Associazione “Curva minore”, Palermo 2003:
«A proposito di musica contemporanea
Regola e libertà.
Quando mi capita di descrivere una mia opera ad un pubblico di non addetti ai lavori, spesso alcune persone si dimostrano stupite dalla libertà con cui le scelte sono state effettuate ai vari livelli del lavoro di composizione; accade anche che altre, per contro, siano infastidite dall’esistenza di un processo compositivo, che viene interpretato come regola contraria alla libertà dell’ ”ispirazione”.
Come molte persone pensano che comporre musica significhi innanzitutto obbedire a certe regole date a priori, altre pensano che l’artista, romantico e maledetto, non debba sottostare a nessun tipo di costrizione. L’atteggiamento del profano sembra quindi oscillare fra il desiderio della rassicurazione (la regola), rappresentata da una prassi consolidata (in genere l’armonia classica, cristallizzata nei manuali), e l’idea che sia possibile una compiuta espressione (la libertà) non mediata da alcun apporto razionale. Sfuggono, quindi, due concetti fondamentali: la connessione esistente nell’esprimersi fra ragione e sentimento ed il valore relativo di ogni regola e di ogni prassi, per consolidate che siano. Potrei affermare che io stesso invento le regole che seguirò durante la stesura del lavoro; preferisco dire che esse si definiscono spontaneamente emergendo a livello cosciente durante un paziente lavoro costituito dal formare il materiale sonoro in base all’idea (argomento musicale dell’opera).
Quando mi accingo a realizzare un nuovo pezzo, cerco di sgombrare la mente da preconcetti e lavoro a lungo con il materiale sonoro che sarà la base della composizione, a volte l’idea è preesistente alla scelta del materiale, a volte nasce dal materiale stesso, dalla natura stessa del suono. Se la mia mente è sgombra e le mie orecchie sensibili, posso constatare il suo assenso o diniego alle mie scelte; in definitiva la regola scaturisce dal comprendere come quel materiale “vuole “ essere formato nell’ambito dell’idea o, in altre parole, dalla necessità espressiva mediata dal rapporto con il materiale sonoro.
Regola e libertà sono entrambe necessarie e si completano a vicenda nel processo compositivo. Non vi sono regole valide in assoluto, ma regole in grado di rappresentare al meglio il complesso sistema di rapporti in cui si incontrano in un dato momento storico, a certe coordinate culturali, l’artista ed il suo materiale. Quando nel comporre si deve obbedire a regole diverse da quelle dettate dalla necessità espressiva mediata dal rapporto con il materiale sonoro ? Ciò accade quando l’opera è destinata ad una funzione sociale, per esempio rituale o di intrattenimento, di cui dovrà essere parte integrante. In questo caso sono le convenzioni sociali, in senso formale e linguistico, a dettare legge. I fruitori dovranno trovare quella musica “consona” all’avvenimento.
Un tempo, forse, non vi era altro modo di concepire la musica.
Per molta musica d’arte contemporanea l’ascolto stesso dovrebbe costituire l’evento sociale cui essere destinata : immagino luoghi in cui le persone si incontrano per “sentire”, “discutere” e “scegliere” liberamente musica. L’ascolto è stimolato dalla curiosità per le possibili scoperte e vi è allo stesso tempo disponibilità e senso d’avventura ; discussione e valutazione critica costituiscono un esercizio di libertà in bilico fra intelletto e sensibilità ; ad esse si accompagna un “divertimento” profondo.
Quanto corrispondono, oggi, il concerto e, quindi, la sala da concerto a questo rito sociale ?
Tutto sommato, poco. Il concerto è divenuto, in generale, un rito sclerotico dove la convenzione è più forte della curiosità : basti pensare che le “composizioni” hanno perso importanza rispetto alle “esecuzioni”, la funzione dell’opera sembra divenuta quella di rassicurante arena ove esercitare, insieme a grandi abilità, un divismo vuoto e spesso mercantile.
L’opera, quindi, deve essere ben conosciuta da tutti, non una nuova opera è attesa, ma la ripetizione di un repertorio che spesso, per la sua limitatezza, rappresenta male anche il nostro passato musicale.
Attenzione, vi sono concerti di musica contemporanea ove si presentano al pubblico musiche di oggi.
Purtroppo, con il passare degli anni, molte di queste manifestazioni sono divenute sclerotiche anch’esse, proprio come i concerti tradizionali ; sembra impossibile, una contraddizione in termini, ma può esistere una sclerosi anche nel “nuovo”. A forza di sentirsi “diversi”, molti compositori si sono raccolti in conventicole ove si coltiva un’accademia sterile, fatta di false novità e di regole vuote. Le loro associazioni spesso propongono ad un pubblico inesistente brutti concerti male eseguiti e
presentati .
E’ necessario che si abbia la generosità di non giudicate la musica di oggi da tali risultati.... per fortuna vi è dell’altro. Ma dove cercarlo ? Oggi più che mai, forse, è necessario un grande sforzo da parte di chi ama la musica : si tratta di volerla creare e di volerla ascoltare veramente; a queste condizioni la musica viene e verrà e si potrà essere in grado di accorgersi di talune situazioni di vero interesse, che altrimenti passerebbero per noi inosservate.
Come ascoltare una musica che non utilizza un linguaggio universalmente conosciuto ?
Nella buona musica, di qualsiasi genere o epoca, è codificato un messaggio del cui contenuto è spesso impossibile dare una descrizione compiuta mediante le parole. Si tratta, appunto, di musica, e, soltanto attraverso l’ascolto possiamo “comprenderla” veramente. Quando ascoltiamo per la prima volta un’opera appartenente ad una cultura diversa dalla nostra, per esempio un pezzo di musica non occidentale, può capitarci di provare un senso di totale estraneità, tutto ci sembra monotono e incomprensibile, ci mancano chiari punti di riferimento. Lo stesso “fallimento” può verificarsi quando ascoltiamo un pezzo di musica contemporanea ; esso proviene dalla nostra stessa cultura, ma, ugualmente, può darci l’impressione di essere un oggetto estraneo e incomprensibile. Nell’ascoltare possiamo ben mettere in moto la nostra convinzione a priori che si tratti di opere di nessun valore ; tuttavia ciò appare alquanto ingenuo e semplicistico : forse possiamo, senza difficoltà, convenire che in ogni genere di situazione e cultura musicale non manchino opere valide, come anche d’altronde composizioni non riuscite. Se postuliamo che l’oggetto del nostro ascolto possa essere un prodotto artistico valido e interessante, vi deve pur essere qualcosa che ci sfugge, che ci impedisce di “decodificare” il contenuto dell’opera.
Volendo esprimerci in termini semplici e perciò, naturalmente, alquanto restrittivi, potremmo dire che il messaggio musicale è contenuto nella variazione del suono nel tempo. Il suono è definibile mediante vari parametri : i principali si possono considerare l’altezza, l’intensità, il timbro (nella sua accezione più ampia) e la durata. Culture diverse focalizzano l’attenzione sulla variazione di parametri diversi.
La musica della nostra tradizione si è, in generale, basata sulla variazione del parametro altezza.
Prendiamo, per esempio, una melodia tonale eseguita da uno strumento, per esempio un violino : la nostra attenzione si focalizza appunto sulla melodia (il profilo di variazione dell’altezza) ; il timbro del violino svolge anche la funzione di trasportare il messaggio costituito dalla struttura melodica.
In musica, dunque, possiamo percepire forme, profili e strutture mediante la variazione di qualche parametro del suono stesso.
Molti anni fa, durante gli studi di composizione, mi capitò di ascoltare una musica per me del tutto nuova : un monaco Zen suonava il suo flauto variando soltanto l’intensità del suono con incredibile abilità e capacità espressiva ; una “melodia” di intensità, quindi, che utilizzava una “scala” costituita da oltre trenta gradi distinguibili. Per poter percepire una tale musica dovetti esercitare a lungo il mio orecchio e abituarlo a distinguere le strutture dei profili tracciati dal parametro attraverso cui il monaco si esprimeva.
Un’eperienza simile fu, per me, il primo ascolto di “Colori” (Farben) di Schönberg (“Cinque pezzi per orchestra” op.16, 1909). Il parametro altezza, per così dire, si ferma : gli accordi utilizzati nel pezzo sono resi continuamente cangianti in modo da formare una “melodia di timbri” (Klang Farben Melodie). I cambiamenti timbrici sono ottenuti variando la veste strumentale degli accordi in modo da creare l’illusione di una continua variazione di “colore”.
La variazione “timbrica”, che coinvolge molti parametri del suono nello stesso momento, rappresenta una importante tecnica espressiva del nostro secolo ; scoperta da Schömberg in “Colori” essa è tuttora argomento di ricerca da parte di musicisti e compositori. Per percepire, comprendere e riconoscere le variazioni timbriche occorre concentrarsi sulla tessitura interna al suono (variazioni di spettro), è quello il luogo ove il “messaggio” è codificato.
In “Antony” di David Wessel (realizzato all’Ircam di Parigi, 1977) il “timbro” e la microtessitura del suono sono i parametri fondamentali : in quest’opera i suoni sono tutti elettronici, ma, in diverse zone del pezzo, vi sono mimesi di timbri vocali e strumentali come appigli percettivi per la memoria.
A parte ciò, nulla in questo lavoro richiama a suoni familiari : fasce di suono si trasformano lentamente esplorando uno spazio che va dal rumore all’altezza determinata.Ho utilizzato spesso questo pezzo come argomento di analisi nell’ambito del mio lavoro di insegnamento della composizione elettronica ed ho potuto rilevare l’immediatezza con cui viene percepito anche da principianti.
Non occorre affatto, infatti, che l’ascoltatore possieda conoscenze tecniche specifiche, per fortuna, il nostro apparato percettivo è abilissimo nel riconoscere i “colori” sonori. Ciò che più importa è l’atteggiamento con cui si ascolta : spesso è bello ripetere l’ascolto di qualcosa di ben conosciuto, ma qualche volta, può essere importante l’incontro con una musica per noi nuova, curiosità e disponibilità sono gli strumenti migliori per affrontare una tale avventura percettiva, saremo liberi di cercare e, forse, trovare nuove emozioni ed interessi ; saremo infine liberi di discutere e valutare criticamente l’esito dell’esperienza.
A questo punto sembrerebbe che la capacità di comprendere una musica nuova sia un fatto d’attenzione percettiva in senso eminentemente acustico e psicologico ; sintonizziamo l’orecchio sugli opportuni parametri, assumiamo un atteggiamento “favorevole” e il gioco è fatto.
Qualcuno dice anche che non si deve parlare della musica al pubblico, essa, se è buona, si fa sempre comprendere da sola, per mezzo del solo ascolto.
In realtà la musica nasce all’interno di un contesto culturale di cui è parte integrante come elemento attivo e da cui è, in qualche misura, inseparabile.
Ascoltando i suoni del monaco Zen, mi resi conto di non saper nulla del mondo in cui quei suoni venivano emessi ed a cui, in qualche modo a me sconosciuto, erano funzionali. Ascoltare quella musica per mezzo di un impianto stereo in una casa di Roma era un poco come “strappare” un parte da un organismo sociale e culturale lontano e complesso : era possibile comprendere il senso di quella musica senza aver nozione di quell’organismo ? Appresi più tardi che quel monaco suonava da solo per giornate intere assiso su di un’alta roccia, che il suo riferimento religioso era il vento, il vento che suonava attraverso di lui. Penso proprio che fosse importante “sapere” queste cose oltre chè “sentire” quei suoni ; in questo particolare caso, poi, trattandosi di una cultura così lontana e complessa, mi resi conto che, pur cogliendo una parte del messaggio, l’intero senso mi sarebbe, forse, sfuggito per sempre.
Allo stesso modo il cogliere il senso di un’opera come “Colori” di Schömberg non può, a mio avviso, prescindere completamente dalla conoscenza delle coordinate culturali dei primi anni del nostro secolo. Proprio in quegli anni si verificò, in tutte le arti, quella rivoluzione da cui derivano l’arte e la musica di oggi.
“Antony” di David Wessel è nato nei laboratori dell’Ircam di Parigi dove erano stati messi a punto nuovi sistemi per la sintesi del suono ed acquisite nuove conoscenze riguardo alla percezione del timbro in particolare e del suono organizzato in generale.
“Antony” è un risultato dell’arte del suo autore calato in quel contesto storico e culturale, conoscerlo significa certamente aggiungere un livello importante all’ascolto del pezzo ed al suo inquadramento nella storia del pensiero musicale.
Oltre a disponibilità all’ascolto e sensibilità al suono, ritengo , quindi, sia fondamentale un avvicinamento all’opera da un punto di vista culturale. Conoscere il contesto in cui una musica è nata può contribuire senz’altro a coglierne il senso e, in definitiva, ad esprimere un giudizio globale su di essa con maggiore libertà, cognizione di causa e “divertimento”.Le nostre scuole, purtroppo, ci aiutano poco o nulla in questo senso : la responsabilità di conoscere la musica sta tutta, quindi, sulle nostre spalle.»
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