Ha studiato Pianoforte e Composizione a Milano, dove si è diplomato a pieni voti nel 1978, sotto la guida rispettivamente di Piero Rattalino e Bruno Bettinelli. Si trasferisce a Parigi, conseguendovi un secondo diploma di Composizione (Prémier Prix “à l’unanimité du jury”) presso il rinomato Conservatoire National Superieur de Musique (classi di Olivier Messiaen e di Ivo Malec). Successivamente, corsi vari di perfezionamento a Siena, presso l’Accademia Musicale Chigiana con Franco Donatoni, ad Aix-en-Provence con György Ligeti e Iannis Xenakis, a Groznjan con Witold Lutosławski. Studia e insegna per due anni negli Stati Uniti presso la University of California a San Diego grazie a una borsa Fulbright.
Vincitore di numerosi concorsi nazionali ed internazionali - fra i quali il “Valentino Bucchi” di Roma, e l’ “Ennio Porrino” di Cagliari - Landini è l’unico compositore ad aver vinto due edizioni consecutive del Concorso “W. Serocki” di Varsavia, nel 2002 e nel 2004. Nel dicembre 2007 è stato insignito, a Varsavia, del prestigioso “Witold Lutosławski Award”, unico italiano da sempre col suo Le retour d’Astrée per violino e pianoforte. Nel 2013 è stato il solo compositore candidato dalla Simc a rappresentare l’Italia ai World Music Days 2013 di Vienna-Bratislava.
Al suo attivo ha vari cd monografici con l’integrale delle tre Sonate per pianoforte e l’integrale dei lavori per orchestra (Tactus, 2007).
Le più importanti istituzioni concertistiche del mondo hanno ospitato musiche da lui composte, dai parigini Centre Pompidou e Salle Gaveau alla newyorkese Carnegie Hall, alla NHK Concert Hall di Tokio. Radiodiffusioni RAI, BBC, Radio Koper, Radio Warszawa, KPN, Radio France, WDR, NDR, SWR (Germania), NBS (Japan).
Nel marzo 2002 è nominato membro onorario dell’AAAS (American Academy for the Advancement of Science). Nel gennaio 2003 è nominato Fellow dell’Italian Academy di New York e Research Scientist presso il Music Department della Columbia University, dove insegna durante l’intero Spring Semester. Ha tenuto seminari nella Eastman School di Rochester e a Buffalo (SUNY). Nel 2006 è stato Visiting Professor alla UMBC di Baltimore (Johns Hopkins), insegnandovi per l’intero Winter Semester. Ha tenuto seminari presso la University of California, il Department of Graduate Studies della Columbia, la «Eastman School of Music» di Rochester, la «State University» di Buffalo, la Musikhochschule di Trossingen (Germania) e l’Università di Praga (Hamu). Nell’aprile-maggio 2008 è ospite del Californian Institute of the Arts (Valencia, Los Angeles) e della University of New Mexico (John Donald Robb Musical Trust Composers’ Symposium, Albuquerque, NM), tenendovi a battesimo tre pezzi in prima esecuzione assoluta nonché una serie di lezioni. È ospite regolarmente invitato dai Ferienkurse für Neue Musik di Darmstadt. Titolare di cattedra, attualmente è docente presso il Conservatorio di Musica di Piacenza.
-- «L’ambiguità di questi nostri anni, quelli di una età a pieno titolo postmoderna, anni nei quali “tutto è lecito” (“everything goes”), esibisce una presenza duplice e contraddittoria. Come quella del dio Giano, il dio bicefalo, dai due volti. L’erma bifronte del dio saluta il viandante in atto di avvicinarsi a lei e, da dietro, alle sue spalle, congeda il viaggiatore ormai lontano, saluta il viandante che ha ripigliato il suo cammino. Narra una leggenda, sorta forse allo scopo di spiegare il mito del bicefalo, che Giano abbia ricevuto dal dio Saturno, per l’ospitalità ricevuta, il dono di scorgere sia il passato che il futuro. Flebile, intrinsecamente malata, saturnina, malinconica par excellence, è in sé la musica. Essa è impermanente, essa non ha presente, come ben sapeva Jankélévitch, ma si radica ai due estremi del tempo storico, passato e futuro, in entrambi sforzandosi di trovare, o di ritrovare (meglio, di ricostruire) un senso per l’ascolto. La mente umana, spiega Abraham Moles, il padre della teoria dell’informazione, effettua in continuazione questa grande “scommessa sull’avvenire nei termini del passato”. Perché non dovrebbero farlo il compositore e tutti coloro i quali ne ascoltano la musica? »
Carlo Alessandro Landini su http://www.webalice.it/c.a.landini/
--Si è parlato a proposito di questo autore di poetica della "nuova semplicità" che emerge dalla rivalutazione di forme romantiche, o comunque "passate", nell'utilizzazione dei parametri musicali, sia pure con l'uso di nuove "forme sonore", e del ripristino di un dolce trasporto espressivo.
-- Guido Michelone intervista Carlo Alessandro Landini (pubblicato su gennaio 31, 2014 da fabrizio cento fanti)
D.: Così, a bruciapelo, chi è Carlo Alessandro Landini?
R.: È uno che i compagni di classe chiamavano uno “sgobbone”, un “secchione”, perché, dopo aver terminato la traduzione di greco o il compito di fisica, costui se ne stava o ad ascoltare musica o, come l’immusonito Schröder di Charles Schulz, curvo sulla tastiera a studiare il pianoforte o sugli spartiti per leggerli, suonarli, analizzarli.
D.: Mi racconta ora il primo ricordo che ha della musica?
R.: Conservo il ricordo di un minuscolo xilofono colorato che mi fu regalato dalla nonna all’età di tre anni. Mi trovavo ammalato a letto, nella nostra abitazione milanese. Grazie al piccolo strumento, per metà un giocattolo, ma per il resto perfettamente funzionante, le ore di degenza passarono più in fretta. Mi dissero che avevo impugnato delle matite colorate cercando di riprodurre l’altezza delle singole note su un foglio bianco. Fu il mio primo tentativo – ovviamente inconsapevole – di comporre.
D.: Quali sono i motivi che l’hanno spinto a diventare un musicista?
R.: Non esiste un motivo per il quale un compositore diventa un compositore. Sarebbe come chiedere a una persona che cosa l’abbia o meno spinta a diventare adulta anziché restare bambina. Le componenti della motivazione sono genetiche, ambientali, biotipiche. Impossibile scomporre la motivazione a creare nelle singole forze caratterizzanti. Di sicuro più facile sarebbe rispondere alla domanda opposta: quali sono i motivi che spingono qualcuno a non diventare un musicista? La precarietà dell’orecchio cosiddetto musicale non sarebbe una risposta credibile. Se uno mi dice: “perché ho poco orecchio”, io non gli credo. Per non diventare un musicista basta, in Italia, la scarsissima considerazione che si ha, in genere, verso questo mestiere, l’ultimo della scala sociale. Insomma, per diventare musicista basta aver voglia di esserlo, occorre un po’ di egoistica voglia di creare. Ma per restarlo, ossia per restare in sella al cavallo dell’arte, occorrono una quantità immane di perseverazione e, se mi permette, anche un pizzico di follia.
D.: E in particolare perché ha deciso di fare il compositore?
R.: Ecco, se per fare il musicista occorrono costanza e originalità, per fare il compositore occorre anche una buona dose di masochismo. Se, infatti, all’interprete – il pianista, il violinista, il cantante – vanno di regola un cachet e l’apprezzamento ammirato del pubblico, al compositore non vanno né l’uno né l’altro. L’interprete virtuoso incamera tutti gli applausi, i postulanti di autografi si materializzano all’ingresso del suo camerino. Il compositore? Nessuno sa chi sia.
D.: Accetta l’etichetta di autore classico o di musica dotta (o colta)?
R.: L’accetto. Data la frattura che si è storicamente creata fra l’artista creatore e il pubblico (in tutti i campi, non solo in quello musicale), dobbiamo solo prenderne atto e non cercare di negare a noi stessi l’evidenza. Da questa presa di coscienza possono, per l’artista, scaturire e prender vita due movimenti tra loro opposti: verso il pubblico, in direzione del sociale e dell’integrazione (con le conseguenze inevitabili che ciò avrà sullo stile e sul linguaggio), oppure contro il pubblico (o semplicemente ignorando l’esistenza di un pubblico), in direzione cioè dell’opera d’arte, dell’art pour l’art. In tal caso l’artista sacrifica ogni socialità sull’altare della coerenza (con il rischio di una nevrosi profonda, di uno strappo fra l’io e l’altro, che è impossibile ricucire e risanare). Lo ripeto sempre ai miei studenti: il compositore di musica “colta” è disposto a morire per difendere un’idea. Quello di musica “popolare” rimpiange, come fecero Nino Rota e come fa ancor oggi Ennio Morricone, i bei tempi andati della sperimentazione, della ricerca, dell’impegno. A entrambi manca qualcosa. Al primo fa difetto il consenso, al secondo la serietà.
D.: Come mai ha saltato di pari passo tutta l’esperienza post-dodecafonica (Darmstadt, alea, elettronica, minimalismo) per arrivare a una sorta di neo-neo-classico?
R.: Non ho saltato nulla. Ci mancherebbe altro. All’ingenuità si può arrivare o per caso, perché ingenui lo si è per davvero, oppure per un nichilismo storico che non vede, pur avendola cercata per anni, una via di uscita. E allora si ripudia la prassi – non il concetto – estrema delle avanguardie. Questa “ingenuità di ritorno” è in realtà la quintessenza della malizia. Mancano le premesse storiche per aspirare al sogno edenico di un’innocenza riconquistata, di un Classicismo ritrovato. Quando l’artista si trova al bivio tra realtà e razionalità, egli è costretto a scegliere tra l’uno e l’altro partito, a imboccare una delle due strade che gli si aprono davanti. Al miraggio della razionalità si vota il compositore d’avanguardia, integerrimo e leale come un frate trappista. A quello di realtà si piegano tutti gli altri, chi più e chi meno. A vent’anni io tendevo a scardinare, a calpestare tutto ciò che io trovavo sul mio cammino, il valore di novità era quello a contare, per me, più di ogni altra cosa. Oggi della novità io non so davvero che farmene.
D.: E al posto delle novità allora che cosa ricerca?
R.: Cerco di costruire, o di ricostruire, invece di abbattere. Ma nessuno può costruire qualcosa se prima non ha buttato giù quanto gli impedisce di costruire con libertà. Sono passato per le forche caudine dei Ferienkurse di Darmstadt una prima volta nel 1978, poi altre 5 volte fino all’ultima, il 2010 (su un vecchio numero del mensile Amadeus è comparsa la cronaca di questo mio ultimo viaggio a Darmstadt). Nel 1994 gli Arditti vi suonarono il mio quartetto Changes, 32 minuti di musica. Non mi considero un neo-neo-classico. L’ultimo neoclassico di valore è stato, in Italia, Alfredo Casella. Dopo di lui, a cominciare da Petrassi e da Dallapiccola, il panorama della musica italiana ha iniziato a frantumarsi e a imboccare vie divergenti, più o meno all’insegna dello sperimentalismo e dell’impegno. Nessuna di queste soluzioni, salvo forse il caso di taluni compositori minori e del tutto isolati, può dirsi veramente neoclassica.
D.: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associa alla musica?
R.: Nessuna idea, nessun concetto, nessun sentimento. La musica è un puro tramite, un linguaggio, un nudo repertorio di segni in grado di veicolare un’emozione facendosi espressione. Lo aveva affermato Eduard Hanslick nel 1854, lo ha ripetuto Riccardo Muti di recente. Pensare di concettualizzare la musica sarebbe neoclassicismo. Ritengo invece che esista la possibilità di “visualizzare” la musica, al cui interno l’ascoltatore deve essere in grado di orientarsi. Ogni brano musicale è abitabile così come si abitano un soggiorno, una camera da letto, un bagno. Esiste la famosa similitudine dell’architettura di un brano musicale, mutuata dagli strutturalisti degli anni Sessanta, che fa assomigliare una musica, con i suoi anfratti e recessi, a un edificio. Di converso, mi viene in mente il delizioso acquerello – intitolato Fuge in Rot – che Paul Klee dipinse nel 1921 prendendo ispirazione dall’ottavo contrappunto dell’Arte della Fuga (Fig.). Si può cercare di restituire visivamente l’idea di una Fuga. Musica e arti visive: questa è la parentela che io posso al massimo riconoscere a entrambe, questo è ciò che le accomuna.
D.: Si interessa di altri generi (jazz, pop, rock)? e cosa ne pensa?
R.: Mi spiace, il solo ed unico bosco nel quale mi piace effettuare le mie passeggiate musicali è quello della musica strumentale, priva di ritmi trascinanti, di volumi di suono assordanti, di melodie strappalacrime. Avverto la mia predilezione non come una mancanza, ma come un personale arricchimento. Perfino l’ascolto dell’opera lirica mi crea qualche imbarazzo, qualche personale difficoltà. La musica rappresenta, credo, il massimo dell’astrazione e il minimo della concretezza. I generi che oggi vanno di moda sono pericolosamente vicini al mondo e alla carne, la musica classica lo è al cielo e allo spirito.
D.: Tra i dischi (o composizioni) che ha fatto ce ne è uno (o una) a cui è particolarmente affezionato?
R.: Le mie Sonate per pianoforte. La loro novità è la forma in rapporto allo scorrimento del tempo, quello interiore di chi ascolta, non quello degli orologi. Ho letto di recente un’intervista fatta ad Allevi in cui affermava che ritmo, melodia e armonia si sono alternati nei secoli rispetto al loro prevalere nel coevo linguaggio musicale. Allevi dimentica la forma. Anche la forma, soprattutto la forma – la Gestalt – è uno dei parametri sui quali si fonda il riconoscimento o meno di un pattern, di una frase, di una figura musicale. Il riconoscimento di un dettaglio dipende dalla forma che lo ricomprende. Purtroppo, alla forma non si è mai prestata sufficiente attenzione in Italia, mentre lo si è fatto altrove, soprattutto in Germania (Ernst Kurth, Arnold Schering, Heinrich Schenker). Le mie Sonate per pianoforte, due delle quali eseguite più volte da Carlo Levi Minzi, la Terza cavallo di battaglia di Massimiliano Damerini, al quale è dedicata la Quinta che sto terminando: ecco i pezzi ai quali io sono maggiormente affezionato. Si tratta di pezzi in cui più che in altri esploro la possibilità di estendere la forma allargando il raggio di azione dell’attenzione, sulla strada indicata da Brahms e da Wagner. Io allargo il “cono di luce”, il focus dell’attenzione attraverso una variazione in divenire.
D.: Gioco della torre: tra i dischi che ha ascoltato quale porterebbe sull’isola deserta (non più di tre)?
R.: Glenn Gould e le sue Variazioni Goldberg (nell’ultima incisione fattane per la Sony nel 1981, nella quale Gould prende un metronomo lento, quasi la metà del metronomo adottato nell’incisione del 1955), Sviatoslav Richter e l’integrale del Clavicembalo ben temperato, infine Claudio Abbado che nel 2005, alla testa dei Berliner, dirige la Sesta di Mahler.
D.: Quali sono stati i suoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?
R.: Non saprei dire. Ogni artista è come una spugna disposta ad assorbire tutto ciò che trova intorno a sé. Davanti a fronte di questa domanda dovrei indulgere a tutta una serie interminabile di nomi e di ringraziamenti. Tanto per cominciare, devo molto a mia madre, che è stata la prima a incoraggiarmi a fare ciò che faccio. Devo molto (malgré lui) a Piero Rattalino, che ha infuso nelle mie mani la tecnica pianistica e nel mio cervello una certa maniera di guardare al testo criticamente. Gli studi compiuti con Franco Donatoni all’Accademia Chigiana di Siena – fra il 1975 ed il 1978 – mi hanno regalato una prospettiva nuova, assolutamente inedita, sull’idea di musica, di materiale, di progettazione. I miei frequenti, informali colloqui con Gerard Grisey mi hanno aperto il cosiddetto “terzo occhio”, facendomi per la prima volta intravedere la profonda, abissale relazione che lega il timbro musicale al tempo, la percezione del suono a quella del tempo, musicale e biologico. La produzione degli spettralisti francesi ha rivestito, più in generale, un ruolo di primissimo piano nella mia produzione.
D.: E sotto l’aspetto della teoria e del pensiero ha avuto altri maestri?
R.: Dal punto di vista teorico, quello delle letture fatte, l’elenco sarebbe sterminato. Una grande influenza su di me hanno avuto i miei studi di psicologia, e poi le idee di Hans Keyser, praticamente sconosciuto qui in Italia, la lettura di Growth and Form di D’Arcy Wentworth Thompson, gli studi di Jurgis Baltrušaitis sull’ottica, quelli di Sir Ernst Gombrich sulla decorazione in pittura e in architettura. Infine, mi incuriosì e impresse una svolta alla mia produzione la lettura del saggio La géometrie secrète des peintres, di Charles Bouleau, in cui si dimostra come in tutte le opere d’arte si nasconda, a un livello profondo, quasi sempre imperscrutabile a occhio nudo, un ordine segreto.
D.: E i compositori che l’hanno maggiormente influenzata?
R.: Direi Bach e Brahms per quanto riguarda il piacere ingenerato dal contrappunto delle parti, piacere che non manca mai nei miei pezzi. Poi Debussy, Skrjabin, Mahler e Messiaen, che ho frequentato a Parigi nel 1980, per l’aspetto armonico: tutti costoro allargano l’idea di consonanza e modulano i rapporti intervallari della scala, gli stessi che compongono e danno vita all’accordo generatore. Il concetto di consonanza viene da tutti costoro esteso fino alla tensione estrema, senza mai tuttavia romperla, come hanno invece fatto Schönberg e la sua scuola. Mi ha influenzato molto Xenakis, con il quale ho studiato per qualche mese a Parigi e ad Aix-en-Provence, dal quale ho ricavato l’idea di una volumetria musicale, di una spazializzazione del suono, di una topologia discreta della forma musicale. Ho molto amato Ligeti, per la stessa ragione. Per l’idea di una “forma monumentale”, alla quale sono da sempre fedele, gli autori di riferimento sono tanti. Ma forse Wagner è quello da me più ammirato e amato, quello al quale la storia della musica dell’Occidente non potrebbe mai rinunciare.
D.: Qual è stato finora il momento più bello della sua carriera di musicista?
R.: Sono sincero: i momenti più belli, più intensi, più ricchi di soddisfazione sono per me legati alla creazione di musica, a qualcosa di importante che, volgendomi indietro, posso contemplare con legittimo orgoglio e con la consapevolezza di aver fatto qualcosa di utile e, chissà, di aver forse dato vita a qualcosa che resterà dopo di me. Ma è l’intimità con il suono a farmi sentire vivo e felice di esserlo. Mi bastano una mattina o un pomeriggio trascorsi al pianoforte a scrivere o semplicemente a suonare il “mio” Bach per regalarmi uno squarcio di Paradiso.
D.: Come vede la situazione della musica in Italia?
R.: Non vorrei snocciolare le solite cifre, i balletti di dati e di statistiche. Dico qualcosa che è sotto gli occhi di tutti. Va male. Va molto male. C’è chi in questa o in quella operazione di facciata, in una stagione musicale ben fatta, nel concerto di una giovane promessa, ravvisa la palingenesi dell’arte musicale nel nostro Paese, la rinascita di chissà quali antichi fasti. Da noi esiste solo la terra bruciata di una generazione che coltiva il vizio del “teatrino della politica”, del parlarsi addosso con volontà polemica senza costruire. Dal punto di vista musicale mancano, da noi, due cose: l’educazione musicale di base, quella promossa dalle famiglie, la stessa che fa sì che in Germania, in Francia, nei Paesi nordici vi sia un pianoforte, verticale o a coda, in ogni appartamento, e il sano amateurismo, il dilettantismo di gran classe che fa sì che tutti, ma proprio tutti, ascoltino e facciano musica, ciascuno in base al tempo e al talento, così come avviene nei Paesi più avanzati, così come accade negli Stati Uniti, dove prosperano intere orchestre di dilettanti che non sfigurerebbero accanto alle formazioni più celebrate di casa nostra.
D.: E più in generale della cultura in Italia?
R.: L’Italia vede da sempre emergere talenti isolati laddove uno non se lo aspetterebbe. Aldo Cazzullo ha affermato che il patrimonio scientifico e culturale italiano è “da sempre fatto più dal genio isolato che dal gruppo, più dal talento che dal movimento”. In campo musicale accade lo stesso. Manca, da noi, una cultura organica, una cultura in grado di candidarsi a divenire faro, linea guida, per il vivere civile di tutta una nazione; un artista, un intellettuale, non solo portavoce del suo popolo e figlio della sua terra, ma anche disposto ad accollarsi il ruolo di guida, di riformatore del gusto, di innovatore del comune sentire. Esistono oggi nel nostro Paese degli uomini di cultura, degli artisti capaci di far riflettere criticamente i loro lettori, i loro ascoltatori? Ne vedo davvero pochini.
D.: In che senso ne vede pochini?
R.: Non è più il tempo dei Pasolini, dei Fortini, dei Sciascia, dei Sanguineti, dei Bobbio, dei Del Noce, degli Zolla di una volta. I personaggi di alta caratura intellettuale sono spesso distanti dal Paese reale. Lo stesso avviene in campo musicale. La tendenza all’appiattimento verso il basso è evidente. La mercificazione del gusto ha luogo in mille modi, e ai media radiotelevisivi noi dobbiamo addossare la responsabilità di prima battuta per ciò che riguarda questo vero e proprio sfacelo. Esiste ed è avvertito in modo drammatico, nel nostro Paese, il fenomeno del brain waste, quello di una “perdita dei cervelli” che affligge non solo il più vasto campo della scienza, ma anche, in modo più specifico, il mondo della musica. La povertà dell’offerta musicale è da noi responsabile della “fuga” di molti cervelli, siano essi compositori, o direttori, o splendidi interpreti.
D.: Cosa sta progettando a livello musicale per l’immediato futuro?
R.: Sta prendendo vita la grande partitura della mia Quinta Sonata. Dedicata a Massimiliano Damerini, avrà la sua prima esecuzione assoluta nel 2015 (non so ancora dove esattamente). Si tratta di una partitura ad assetto variabile, 630 pagine che potrebbero aumentare di numero arrivando a oltre mille. E’ la Sonata per pianoforte più lunga mai concepita e scritta, con l’esecutore costretto a non prendere mai fiato (in tutto il pezzo non vi è una sola pausa). La caratteristica principale del pezzo è la scelta di un’armonia neutra (quella della scala ottotonica), tutto fuorché funzionale, tutto fuorché incentrata su frasi e cadenze nel senso tradizionale di un discorso retorico concluso. Un susseguirsi di alti e di bassi, di cavi dell’onda e di creste, proprio come avviene in mare aperto, il cui moto ondoso sarà solo apparentemente caotico. I limiti di accettabilità dell’incognita – questa è rappresentata, nel caso specifico, dalla motivazione ad ascoltare – sono tutti ancora da verificare. Sto elaborando dei modelli di comportamento teorici che, al momento dell’ascolto, dovrebbero permettermi di verificare se ho ragione (la forma può essere estesa, l’attenzione critica di un normale ascoltatore “occidentale” può essere implementata, il suo rendimento può essere migliorato) oppure no. La mia è, ovviamente, una scommessa. Una scommessa che, aggiungo e concludo, mi è costata 5 lunghi anni di lavoro.
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