Iniziati gli studi sotto la guida di Barbara Giuranna, li ha completati al Conservatorio di Musica di Roma con L.A.Gigante, Guido Turchi, Irma Ravinale diplomandosi in Composizione e Musica Corale. È stato poi allievo di Franco Donatoni.
Dopo l'imposizione ai CI "M. Codax" di Vigo in Spagna, "V. Bucchi" di Roma, "MC2 Radio France" ad Avignone, Music Today Contest '89 (Tokyo), molti suoi lavori sinfonici e cameristici sono stati eseguiti in Italia e all'estero in particolare dalle O. delle emittenti Radio Televisive italiane, olandesi, francesi e sono apparse nei cartelloni di numerose rassegne e festival di musica contemporanea (Opera Prima '82, Festival Internazionale Pontino '83 e '86, International Gaudeamus Musikweek '84 e '86, Parigi, Atene, Praga, Madrid, Amburgo, Kiel, Tokyo, etc.)
Ha ricevuto commissioni da enti quali l'Orchestra della RAI di Roma, l'Arena di Verona, il Maggio Musicale Fiorentino, l'Accademia di S.Cecilia, il Teatro Massimo di Palermo, la Museums-gesellschaft Orchester di Francoforte, l'Accademia Filarmonica Romana. I suoi lavori sono stati interpretati, tra gli altri, da Dorothy Dorow, Arturo Tamayo, Luisa Castellani, Giuseppe Sinopoli, Daniele Gatti, Rinaldo Alessandrini, Stephan Anton Reck, Paolo Carignani, Albert Dohmen, Mariella Devia, Marina Comparato, Karl Martin, Corrado Rovaris, il Quintetto Bibiena, etc.
La sua opera si rivolge soprattutto all'esplorazione dei rapporti fra musica, poesia, teatro e danza: da ricordare in tal senso i cicli di lavori sulle opere di Stéphane Mallarmé (L'Azur, 1988, Monologue d'un phaune, 1989, Sonnets et rondels, 1993), Torquato Tasso (Rime notturne, 1994, Rime d'amore, 1998, eseguito sotto la direzione di Giuseppe Sinopoli) e W.H.Auden (The Entertainment of the Senses, 2005). Ha composto per il teatro musicale le opere Gli Spiriti dell'aria (1990), Amin (1996), Farinelli, la voce perduta (1996), Il Cambio (1998), La finestra su Kensington Gardens (2000), Dalle due alle tre (2003), Dannata epicurea (2004), Lavinia fuggita (2004) L’albero di Ippolito (2006); per la danza, ha collaborato con coreografi come Fabrizio Monteverde, Evgheni Polyakov e Robert North, realizzando i balletti Mascherata Veneziana (1993), La Ronde (1995), Le Baccanti (1997), Animae Corpus (1999).
Significativa è anche la sua esperienza nel campo della musica sacra, con i due mottetti Attende Domine e Jubilate Deo (1991), il Sanctus, all'interno del Requiem per le vittime della mafia, opera collettiva, (1993), e lo Stabat Mater su testi sacri e di Vincenzo Consolo (1999, eseguito più volte in Italia e all’estero). Dal 1984 è attivo come autore di musiche di scena, collaborando con alcuni fra i maggiori registi italiani (Squarzina, Costa, Cobelli, Missiroli, Guicciardini, Monicelli, Scaparro, Carriglio, etc.).
Dal 1997 al 2000 è stato direttore artistico dell'Accademia Filarmonica Romana, e dal 2000 al 2002 direttore artistico del Teatro Comunale di Bologna. Dal 2006 è titolare della cattedra di Composizione presso il Conservatorio S. Cecilia di Roma e Accademico di S. Cecilia.
--«D.: Un check-up, per individuare la fisionomia di Matteo D Amico, giovane compositore di, fine secolo.
R.: Nasco come musicista in modo tradizionale, senza nessuna vocazione improvvisa, vale a dire attraverso un lavoro paziente. Una scoperta lenta e graduale, venendo da una famiglia che ha sempre frequentato e praticato la musica. Alla fine degli studi è nato un interesse al fatto musicale, sorretto e incoraggiato da una musicista che tengo a ricordare, Barbara Giuranna, persona di tale entusiasmo, spontaneità e ricchezza musicale da darmi incondizionatamente la spinta iniziale decisiva, fortissima.
D.: Senza un mentore, allora, non si diventa musicisti?
R.: Dipende dai casi personali. Ci sono personalità talmente forti da non aver bisogno di nessuno per scoprire la propria vocazione. Altre hanno bisogno di sollecitazioni. È anche una questione di fortuna: incontrare persone che aiutano ed irrobustiscono non solo la conoscenza tecnica, ma anche quell'ideale ricchezza racchiusa in ciascuno di noi e che deve trovare le strade giuste per emergere. Per me sono stati Guido Turchi, Irma Ravinale e Franco Donatoni. La cultura italiana non è abbastanza riconoscente nei loro confronti: sono artisti di grandissima levatura che dovrebbero essere molto, molto più conosciuti e rispettati. In qualche modo mi hanno attratto e fatto scoprire quanto ricco sia il mondo della musica, e quanto, personalmente, non avessi le caratteristiche dell'esecutore, ma del compositore. L'interprete ha bisogno di un autocontrollo emotivo che io non posseggo. Invece, dal punto di vista musicologico e compositivo, ho percorso tutti i gradi dell'educazione musicale, in Conservatorio, per passare poi al perfezionamento e a stabilire rapporti intensi con i protagonisti della scena musicale italiana, sino alle prime esperienze di lavoro. Chi sente questa passione, sappia che la sua crescita è segnata dall'abitudine e da un fare artigianale rimasto immutato nei secoli. Così come le difficoltà, gli inciampi e i muri che si incontrano su questa strada.
D.: Ha citato due caratteristiche che credo contraddistinguano la Sua personalità e lo stile: emozione e controllo. Che cosa significano per la musica che ne è il risultato?
R.: Il controllo è una parte della quale non si può fare a meno, soprattutto alla fine del millennio, con le inquietudini che stiamo vivendo e dopo tutto quello che ha attraversato la musica in questo secondo cinquantennio del nostro secolo. In fondo, già vediamo, alla fine del secolo scorso, quanto di razionale, di controllato e di rielaborato ci sia nel modo di comporre e di lavorare di Brahms: dunque, già un secolo fa i più grandi compositori avvertivano questa improcrastinabile esigenza. Oggi, per me, pensare la musica in maniera discorsiva, razionale, sempre cercando il massimo della levigatezza formale, della perfezione di scrittura, è diventata un'esigenza connaturata al mio modo di essere musicista. Grazie agli insegnanti che ho avuto, musicisti che privilegiano un approccio intellettuale, non emozionale, con il fatto musicale.
D'altra parte, credo che scrivere musica solo dal punto di vista calligrafico e cerebrale sia abbastanza inutile, visto che oggi più che mai si avverte la necessità di raccontare qualche cosa di se stessi, almeno le emozioni maturate non solo nella dimensione dell'esistenza, ma anche in quella della cultura e dell'arte. Torquato Tasso e la riscoperta delle sue rime sono stati un'emozione.
D.: Una relazione voluta o forluita con il poema di Liszt.?
R.: Liszt è amatissimo sia da me che dal Maestro Sinopoli. Quello orchestrale, poi, mi sta sorprendendo sempre di più: forse lo conoscevo poco o l'avevo sottovalutato. Ma penso che la sua modernità di intendere il suono sia sempre più evidente alle nostre orecchie. È stato davvero un pioniere della ricerca timbrica, insieme con Berlioz. Il comune riferimento a Tasso non è una forzatura, ma una passione che forse ci ha accomunato. La conferma, insomma, della felice accoppiata, in Liszt come nelle rime del Tasso, d'emozione e intelletto. Entrambi grandissimi artigiani, l'uno della nota e l'altro della parola; squisiti, ma al servizio di una materia che ribolle d'intensità emozionale, di gioia e di dolore, giocate con somma maestria ed eleganza formale.
D.: Dunque, è nella letteratura a “servizio'' della musica che trova rnotivi d'ispirazione.
R.: Certamente, perché l'equilibrio e dunque la dialettica tra i due momenti, emozione e controllo, trovano, proprio nel riferimento esterno alla mia musica, una norma, una disciplina e sono sicuramente il fatto più interessante da vivere e da sperimentare nell’atto compositivo: una continua battaglia tra l’urgenza dell’espressione e il controllo dell’artigianato, della forma. Vale per Tasso, maestro dell'inquietudine e della sapienza verbale, ma anche, ad esempio, per un poeta più vicino a noi come Mallarmé, del quale ho utilizzato alcuni testi per opere cui sono assai legato, come L'Azur, per soprano ed ensemble da camera, il mio pezzo più fortunato in assoluto, ed un'altra serie di liriche, per baritono e orchestra. Sonnets et rondels.
D.: Quindi, all’origine della invenzione e della scrittura musicale di D’Amico troviamo sempre un testo poetico o un fatto teatrale?
R.: Ho poca fiducia nella musica assoluta! Non sostengo che il riferimento ad un testo faciliti il lavoro del musicista, ma certo personalmente mi aiuta a plasmare lo stato d'animo, a vivere un'emozione più strutturata, piena, vera. Il rapporto con la letteratura, e forse con le altre arti, proprio per la crisi che sta attraversando il linguaggio musicale oggi, credo sia una delle possibili sorgenti vitali della musica.
D.: Le difficoltà del quotidiano per un compositore. Oggi non vive più di quelle che potevano essere le premesse, e in qualche modo le sicurezze, del passato. Con le finalità intrinseche al suo lavoro. Nel Seicerzto la corte, nel Settecento il palazzo. nell'Ottocento il salotto o il teatro. Nel Novecento tutto il contenitore sociale si è liquefatto, tutte le certezze sono evaporate, e con esse le mete. Altri ambiti sono sorti, in cui fare musica. E i primi sono stati quelli prodotti dalla commercializzazione nel villaggio globale, che ha imposto regole ferree e creato un pubblico nuovo, eterogeneo, "leggero". Questo ha influito in modo drammatico sui contenuti e i protagonisti del villaggio ristretto della musica colta, con effetti dirompenti: elitarismo, settarismo disorientamento, demoralizzazioni, atti di chiusura ipocrita. La musica colta non vive della pubblicità, né dei supporti economici della produzione e distribuzione, e tanto meno dell'offerta di spazi da poter riempire con migliaia di giovani semoventi ed eccitati. Non ha certezze né sicurezze. Quali sono, allora, per Matteo DAmico le regole del gioco e le mete che un compositore trova sul suo scrittoio, nel suo quaderno a righe?
R.: Non deve aspettarsi troppo, né da se stesso né dal suo lavoro. Proprio per il tipo di situazione generale in cui si trova ad operare. Bisogna tenere presente che il tipo di musica che noi pratichiamo è fatalmente un'arte che vive un momento di crisi, stagnante ormai da molti decenni; un momento, inoltre, in cui non è più, come nei secoli che citava, un fatto culturale in prima linea, ossia di primario interesse. Oggi sono altri i mezzi d'espressione culturale e artistica all'avanguardia. Basta pensare al cinema, che ha raccolto l'eredità del teatro d'opera del secolo scorso, con la capacità di raccogliere i sogni, l'immaginario collettivo, le aspettative di una società. È inutile negare che oggi questo ruolo, almeno a livello quantitativo, lo assorbe più il cinema, di quanto non possano fare il teatro o la musica. D'altra parte, è vero che la musica classica, pur vivendo un momento di grande difficoltà, mantiene un suo ruolo di testimonianza, estrema propaggine della tradizione musicale occidentale. Sarebbe pericolosissimo arrivare al silenzio e alla rinuncia, perché sono convinto che qualsiasi epoca abbia il dovere di testimoniare quello che è e quello che vive, facendolo attraverso tutte le forme, tutte le manifestazioni artistiche e culturali che gli sono proprie, tra cui rimane, bene o male, la musica, con il suo grande potere di fascinazione. Un esempio: il grande sviluppo della musica elettronica, la suggestione della musica acustica, che credo ancora non possa essere sostituita da alcun altro mezzo. ed anzi deve essere aiutata e integrata. C'è ancora qualche cosa da testimoniare, con la massima sincerità e serenità, possibilmente senza intellettualismi e volontà ideologiche. Credo che proprio questo momento storico, di là dalle tante difficoltà ed interrogativi che pone, un regalo ce lo fa: la possibilità di liberarci dai dogmi, dalle ideologie, dai falsi ideali, cose che hanno nuociuto ad un corretto sviluppo del linguaggio e della esperienza musicale nel secondo dopoguerra. Ognuno dovrebbe essere libero di esprimere la propria personalità e testimoniare il proprio tempo nella forma che crede più opportuna. Senza farsi troppe illusioni, o credendo di scrivere pagine di rilevanza storica. Nel contesto sociale la nostra voce è, per forza di cose, una voce molto flebile, una voce di minoranza, di piccoli numeri in un mondo che vive invece di quantità. Quindi, il nostro lavoro è forzatamente un lavoro che interessa pochi, ha pochi canali di comunicazione e poche possibilità di circuitazione, anche se con scenari leggermente diversi in ogni Paese d'Europa, secondo la società e la cultura musicale ivi diffusa. Ma a livello mondiale, le cifre che interessano la musica classica sono cifre di retroguardia, non di primo piano. Il valore che dobbiamo coltivare, però, ci sprona a non cedere alle suggestioni e continuare nella missione artistica della musica.» (Dal programma di sala del 20/12/1998 nella stagione di concerti dell’Accademia Nazionale di S.Cecilia: A colloquio con Matteo D'Amico di Luca Pellegrini)
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