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Ha iniziato gli studi musicali all'età di 11 anni realizzando le sue prime composizioni nell'82, in casa su Nastro Magnetico, e diplomandosi successivamente in Pianoforte. Si perfezionerà in seguito con Behrnard Wambach e Massimiliano Damerini; laureato in Lettere moderne discutendo con Paolo Emilio Carapezza una tesi sull’elaborazione motivica nel pensiero musicale viennese, con riscontri nella musica dai Greci fino alla modernità.
Incoraggiato dai professori dell'Istituto di Storia della Musica dell'Università, uno dei luoghi più importanti per la sua formazione, seguì un breve periodo di studio della Composizione al Conservatorio di Palermo con Eliodoro Sollima e poi a Roma con Aldo Clementi. Successivamente, dedicatosi attivamente alla pratica compositiva, alternata a momenti di riflessione e sperimentazione di vario tipo, si perfeziona seguendo i corsi di Luigi Nono , Sylvano Bussotti , H.K.Metzger, F.Incardona, C.Togni, Helmut Lachenmann .
Accosta a una particolare predisposizione all’autoanalisi teorica, alla sperimentazione con gli interpreti, alla didattica, a quello della concreta realizzazione di progetti, come pianista, musicista informatico, organizzatore.
Nel ‘90 Francesco Pennisi lo presenta inserendolo in un concerto monografico come suo ideale seguace. Nella Quarta Conferenza Mediterranea, un incontro musicale tra 12 nazioni, in 3 concerti orchestrali, ha rappresentato i compositori italiani, in diretta su Radio Tre. È vincitore di borsa di studio in Polonia nel’93-’94. Ha collaborato con il coreografo Virgilio Sieni per diversi suoi spettacoli. Nel ‘98 prima rappresentazione al Festival sul Novecento della sua opera-oratorio Salve follie precise-atto primo.
Sue opere sono eseguite da interpreti quali Badano, Brand, Anna Clementi, Damerini, Fabbriciani, Fedeli, Franklin, Lanzillotta, Mondelci, Pizzo, Porta, Ravaglia, Seifriedt, Scotese, Veronesi, Zurria, in Italia, a Nuova Consonanza, a Di Nuovo Musica, al Festival Pontino, e ai Ferienkurse di Darmstadt, a L’Autunno di Varsavia, a New York, Buenos Aires, Vienna, Creta, San Pietroburgo, Amsterdam, ecc.
Nel 2005 è stato pubblicata la monografia a lui dedicata di saggi e incisioni discografiche Autobiografia delle musiche per i tipi de L’Epos.
Collabora con il Centro di Informatica Musicale del CNUCE di Pisa ed è titolare della cattedra di Lettura della Partitura al Conservatorio di Palermo, contrattista di Elementi di Composizione alla Sissis dell’Università della sua città.
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--«Giovanni Damiani, il suono organizzato
Nato in una dinastia di ingegneri e architetti, Giovanni Damiani (Palermo, 1966) è anch’egli ingegnere e architetto, ma nello spazio sonoro. Piuttosto che musica, le sue opere sono suono organizzato: edifici, ponti e viaggi, ma soprattutto giardini, nello spazio sonoro; e non discorsi di parole sublimati. La sua musica non è specificamente arte delle Muse, perfezione del logos, discorso linguistico compiuto e intonato, ma più genericamente “Suono umanamente organizzato” (Blacking 1986, cap. I): più che weberniano “pensiero in suoni” (Webern 1963: 33) è invero genericamente varesiana “corporificazione dell’intelligenza insita nei suoni stessi” (Ouellette 1966: 11) e specificamente bartokiana “vegetazione sonora” (Lendvai 1983: 33-67).
Non è un vate dionisiaco come Federico Incardona, né mercuriale argento vivo come Salvatore Sciarrino, e neppure apollineo orefice di finissime filigrane timbriche come Francesco Pennisi; ma un gioviale alchemico costruttore, come il suo maestro Aldo Clementi. E però i suoi astri sonori non sono, come in questo, d’un cosmo declinante all’estinzione, ma in possente espansione: come quelli d’Evangelisti. Col quale però non condivide il vulcanico furore creativo: non sta cioè dalla parte di Efesto, dei Ciclopi e dei Titani, ma – come Clementi – da quella di Zeus ossia Giove (in tal senso gioviale). Quando dapprima apparve quindicenne in Istituto, mi chiedeva partiture di nuova musica, e specialmente suggestioni di Cage; e mi mostrava le sue primizie di compositore: tecnologici idilli, piccoli indimenticabili capolavori, ottenuti da concreti rumori e da domestici rudimentali apparati elettronici, e incisi su nastro magnetico. Vi ammirai subito la sapienza costruttiva, la regolata libertà, il dominio dello spazio sonoro, allora in miniatura: li ascoltavo e li vedevo come inauditi e invisibili bozzetti scenografici di materia sonora, freschi, novissimi e divertenti. Così giocava allora il suo genio creativo. L’Istituto di Storia della Musica (oggi sezione musicale di Aglaia, dipartimento di studi greci, latini e musicali) dell’Università di Palermo divenne quindi il luogo principale della sua formazione. Ivi conobbe artisticamente e personalmente tutti i compositori siciliani sopra menzionati, nonché Sylvano Bussotti, altro compositore per lui importante, sebbene antitetico, e HeinzKlaus Metzger, lungimirante filosofo della musica. Ivi conobbe anche i miei colleghi Nino Titone, l’inventore negli anni ‘60 delle Settimane internazionali di nuova musica e della rivista Collage, e Amalia Collisani, punta di diamante della musica speculativa. Ivi conobbe i primi illustri esecutori delle sue opere: il pianista Massimiliano Damerini e il violoncellista Luigi Lanzillotta. Ivi studiò e si laureò in Lettere con una tesi su Unità e varietà dell’opera musicale, basato – con il metodo dell’analisi motivica di Rudolph Réti – sulla disamina di musiche attraverso i millenni, dagl’Inni Delfici (II secolo a. C.) ad oggi. “Historia magistra artis”; ma secondo l’aforisma di Rudolph Kolisch, così spesso citato da Metzger, “la tradizione è rivoluzione permanente”. Sicché aveva ragione Friedrich Nietzsche (2003: 56) ad ammonirci: “Il responso del passato è sempre un responso oracolare: solo come architetti del futuro, come sapienti del presente voi lo capirete […] soltanto colui che costruisce il futuro ha diritto a giudicare il passato”.
In paradiso voluptatis
Architetto del futuro il compositore Giovanni Damiani lo è nello spazio sonoro, dove fonda la sua visione utopica, o meglio escatologica; “in paradiso voluptatis” della sua musica, sui versi An den Aether di Friedrich Hölderlin, Raum genug ist für alle: “C’è spazio per tutti. Non vi sono sentieri. E liberi per la casa si muovono grandi e piccini”. In questa sua composizione del 1994 otto strumenti (flauto, clarinetto basso, fagotto, tromba, trombone, contrabbasso e due gong) e una voce di donna (quella castanodorata di Maria Chiara Pavone, o quella violetta di Marie-Luce Erhard) risuonano assieme da stanze diverse, sincronizzati, ma senza direttore: anima e corpo dei beati sono ormai, secondo l’immagine di Rudolph Steiner, suoni luminosi variamente colorati.
Qual musica c’è sulla terra
che come la nostra risuoni?
Cecilia e le sue compagne
son celebri arcimusicanti!
Le angeliche voci risvegliano i sensi,
ché tutto alla gioia, alla gioia si desti!
Così concludeva la Quarta Sinfonia (1900) di Mahler mentre albeggiava il XX secolo, con le sue luci belle che tutti speravano, con le sue tenebre infernali, che nessuno osava neppure immaginare.
Tra minerale e vegetale
Ho definito gioviale la musica di Damiani, ma le sue scaturigini risalgono ben oltre Zeus: non certo al padre di lui, Chronos, ché non è certo saturnina; ai nonni bensì, a Urano e Gaia, cielo e terra. La musica di Damiani non è infatti animale, sì bene minerale: o meglio tra minerale e vegetale. Il cielo e la terra separati, prima della loro unione, sono affatto minerali. Ma se il cielo abbraccia la terra, la illumina e la riscalda, la sferza e l’accarezza coi venti, la bagna di pioggia e l’ammanta di neve, allora sì la feconda: e nasce la vita, la vita vegetale. Rileggiamo il racconto biblico della creazione, l’antefatto e i sette giorni (Genesi, 1, 1–3):
0. Il Chaos: cielo e terra.
1. Fiat lux: il giorno e la notte.
2. Firmamentum in medio aquarum.
3. Terra e mare; erbe e piante.
4. Sole, luna, stelle.
5. Pesci e uccelli.
6. Animali terrestri; l’uomo e la donna.
7. Conclusione e requie.
La sua musica Incardona la coglie nelle giornate estreme della creazione. Scaturisce nella prima: con l’esclamazione di Goethe morente Mehr Licht! (“Più luce!”) s’intitola una sua composizione del 1986, che col suo tenebroso splendore sconfina persino “super faciem abyssi” del primordiale Chaos; ma s’incarna ed ha voce nell’umana animalità della sesta, dov’egli va a coglierla incessantemente e invano cercando conclusione e requie. Germina e termina invece la musica di Damiani nelle giornate centrali, quando mare e terra della terza giornata germinarono “herbam virentem… et lignum pomiferum” sotto il sole, la luna e le stelle della quarta. Sigmund Freud (1977: 224), dopo aver accennato a “l’evoluzione della nostra terra e dei suoi rapporti col sole”, così spiega: “Ad un certo punto una forza, che non possiamo ancora definire, ha destato la vita nella materia”. E proprio attorno a questo punto, da qualche momento prima a qualche momento dopo, germina la musica di Damiani, fiori di Suono lì subito in boccio raccolti: per questo sta continuamente in bilico tra minerale e vegetale. La sua opera più importante, Salve follie precise (1998-2004: su libretto in versi di Francesco Carapezza, tratto da Semmelweis et l’infection puerpérale che Louis-Ferdinand Céline scrisse tra il 1924 e il 1929), rappresenta appunto la germinazione della vita (delle alghe dall’acqua, dell’erba dalla roccia, dell’uomo dalla donna, dei suoni dal Suono) e le minacce di morte che la circondano, di regressione cioè dei regni animale e vegetale al regno minerale. Vi adopera Damiani, come già nella grande sinfonia Matrice-Organon (1995), esclusivamente suoni armonici naturali. Assistiamo così alla germinazione armonica; il Suono genera i suoni, la Nota genera note:
Il Suono come il mare, i suoni come le onde.
Il Suono radice, i suoni virgulti.
Il Suono tronco, i suoni rami.
Il Suono legno, i suoni foglie.
Il Suono linfa, i suoni frutti.
Se Damiani come musicologo è rétiano, come compositore è schenkeriano. Per lui la nota, intesa come Suono puro internamente strutturato a priori è tutto: l’universo della creazione artistica nello spazio sonoro non è che dispiegamento della tensione interna alla nota stessa. Tutto (melodia, tonalità, polifonia, armonia) – come scrive Cesare Brandi (1974: 350) – “discende dalla natura stessa della nota che è, nella stratificazione degli armonici, tonica, nota isolata (di una melodia), accordo e incontro orizzontale di linee polifoniche”.
Matrice–Organon
Così “dalla natura stessa della nota” e precisamente della nota Do (la tonalità della Jupiter, l’ultima sinfonia di Mozart), dal Do più grave di contrabassi e controfagotti (la matrice) nasce e cresce la sua sinfonia, per orchestra con elettronica concreta registrata e con elettronica viva. Trasformando la cellula genetica minerale in organismo vegetale, si eleva via via, verdeggia e giganteggia. Tutta la sua materia deriva dalla “stratificazione degli armonici” di Do, scivolando infine, con impercettibile cataclisma, un tono sotto, in Si bemolle. Per questo chi per la prima volta l’ascolti rimane sorpreso e disorientato: i suoni armonici, oltre la soglia dei primi, oltre cioè le note Do e Sol replicate via via più in alto, sembrano stonati, selvatici; non sono infatti addomesticati secondo le scale storicamente praticate (temperata, mesotonica, cosiddetta naturale), e così tutti gli intervalli, oltre quelli d’ottava, quinta e quarta risultano bizzarri ed enigmatici. Per goderne bisogna vincere la paura dell’ignoto, entrare nella giungla. Simile, ma assai più complessa è la macrostruttura di Salve follie precise, che germina tutta dalla nota Re, la tonalità del Don Giovanni di Mozart: entrambe queste opere rappresentano la vita assediata dalla morte. Lì la sessualità repressa dal moralismo non riesce a trasformarsi in eros perfetto e si manifesta nel libertinaggio sensuale; qui l’infezione puerperale uccide la fonte della vita sorgente. L’immersione nella natura della musica di Damiani era l’aspirazione più profonda delle sinfonie di Mahler: le fanfare, che risonavano nei boschi sonori delle Wunderhornsinfonien, riecheggiano, specialmente evidenti nelle sezioni C4 e C5, nella gran ficus magnolioides di Matrice–Organon; questa è la novella pianta che ai giorni nostri è germinata dal Naturlaut, da cui quelle, più d’un secolo fa, erano sorte. Mahler e Damiani per riattinger la natura non eludono però “la condanna al progresso”. In decine di migliaia d’anni sempre più ci siamo allontanati dal paradiso della natura, per domare con la cultura “una natura ribelle, disperata, natura soggetta alla maledizione, campo maledetto” (Bonhoeffer 1992, 112). L’uomo deve vivere: siamo obbligati al progresso della cultura, non possiamo reimmergerci per sempre nella natura. Ma la cultura è pur sempre coltivazione della natura: della natura minerale, vegetale, animale ed umana. Damiani infatti non torna alla natura partendo direttamente da Mahler, ma fa tesoro soprattutto della successiva evoluzione espressionista e dodecafonica, e specialmente di Webern, nonché della sua controparte rappresentata da Bartok e Varèse; e sfrutta appieno le scienze quadriviali: aritmetica, geometria, musica (nel senso di scienza delle proporzioni numeriche: cioè matematica) e astronomia, e le loro più moderne applicazioni elettroniche. Così i suoi capolavori che sembrano rampollare spontanei da una caotica natura sonora, sono ottenuti attraverso complesse elaborazioni aritmetiche (tabelle numeriche applicate alle note), geometriche (cerchi, quadrati, rettangoli di note, e loro raggi, diametri, lati e diagonali) e matematiche (sezione aurea e numeri di Fibonacci: le leggi fondamentali dello sviluppo vegetale); e sono realizzati mettendo in atto ogni risorsa sonora, vocale, strumentale, orchestrale ed elettronica. Solo così si può oggi riattingere in profondità la natura vegetale (Matrice–Organon), umana (Salve follie precise) e astrale (Zodiaco). Secondo Heinrich von Kleist (1965: 345), “dobbiamo di nuovo mangiare il frutto dell’albero della conoscenza, per tornare alla stato d’innocenza” e ri-trovare così il paradiso: solo quando la conoscenza sarà perfetta, potrà ristabilirsi il regno della grazia. La cultura è una necessità, l’arte una consolazione indispensabile. Adamo ed Eva “in paradiso voluptatis” non avevano bisogno né di cultura né di arte. Noi invece ne abbiamo bisogno sempre più.» (Paolo Emilio Carapezza - Incardona e Damiani: alle fonti terrestri del suono).
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